top of page

Bambini o calciatori? A cosa serve la scuola calcio?

Cinque anni fa allenavo un gruppo di Pulcini e, dopo una partita, mi trovai a scrivere questo articolo per spiegare la mia posizione riguardo il risultato nella scuola calcio.

Intervallo di una classica amichevole di inizio stagione con squadra da formare e nuovi giocatori da conoscere.
I miei ragazzi sono in vantaggio per 9-2 e tornano verso la panchina festanti e gioiosi, quando si imbattono nel mio discorso: “scordatevi che siete in vantaggio di sette reti, non m’importa niente del risultato. Non m’importa quando perdiamo, figuriamoci se stiamo vincendo”.

Dopo queste parole vedo la maggioranza della squadra concentrata e carica, ma il mio sguardo si sofferma su due ragazzi appena arrivati da altre realtà calcistiche.

Le loro facce sono perplesse e sembrano dire “ma come, stiamo stravincendo e tu ci vieni a dire che non ti importa niente?”

 Sì ragazzi, non m’importa perché non sono i risultati a dire se siamo una squadra o meno. Non è importante se vinciamo o perdiamo, ma come giochiamo e come proviamo a vincere.
Sarò orgoglioso di voi ogni volta che proverete a giocare divertendovi, ogni volta che sarete complici e in grado di coinvolgervi a vicenda, ogni volta che saprete dimostrarvi uniti e collaborativi nel superare ogni ostacolo, ma soprattutto ogni volta che sarete solidali con un vostro compagno in difficoltà.
Quindi ragazzi miei, non m’importa nulla del risultato, ma se vinciamo abbiamo una scusa per esultare insieme!

Oggi dopo cinque anni, dopo aver fatto diverse esperienze e aver allenato categorie diverse tra loro, sono ancora più convinto che il risultato della partita sia niente.

Purtroppo, però, avendo ripreso quest’anno ad allenare Piccoli Amici e Pulcini, devo constatare che nulla è cambiato: la retorica del risultato nella crescita dei giovani calciatori non ci ha ancora abbandonato.

Ciò che noto è che si tende a voler rendere i bambini dei professionisti, dimenticando che il calcio è prima di tutto un gioco e che, per questo, alla sua base dovrebbero esserci solo ed esclusivamente passione e divertimento.

Certo, se chiedete a qualsiasi adulto, intento ad osservare una partita di calcio dei più piccoli, cosa si aspetti, vi dirà sempre e solo una cosa: “l’importante è che si divertano”. Il più delle volte però questa affermazione nasconde la frustrazione delle persone più vicine ai bambini che giocano, ovvero istruttori e genitori.

Ci dovrebbe essere un cambiamento alla base del discorso calcistico per abbandonare realmente la “retorica del risultato”. Chiamare il Mister “istruttore”, ad esempio, presuppone già che egli sia la persona predisposta esclusivamente al trasferimento delle nozioni tecniche del calcio. Per me questo è limitare e svilire notevolmente il nostro ruolo, che, a mio avviso, dovrebbe essere quello di complici al servizio del bambino nel suo percorso di scoperta calcistica.

Cosa c’entra questo con il dare importanza al risultato? C’entra nella misura in cui, se mi rispecchio nel ruolo di “istruttore” e come tale mi comporto, è naturale che io prediliga una formazione “professionistica” del bambino, anche nell’attività di base.

Il bambino diventa così un piccolo adulto, a cui viene negata la possibilità di giocare per giocare, dovendo ascoltare, assecondare, accontentare o sopportare mister e/o genitori.

Il gioco per il gioco, la spontaneità di questo, la naturalezza e la ricchezza del giocare per il gusto di giocare sono per me, invece, alla base dell’apprendimento calcistico.
Considerando che, nella società odierna, il tempo dedicato al gioco per i bambini è notevolmente ridotto e spesso praticato solamente durante le attività sportive, ritengo importante che queste agenzie educative si riconoscano come tali e consentano ai bambini di essere bambini, lasciandoli liberi di giocare.

 

Potrebbe sembrare, ad un occhio poco attento, che in questo modo il lavoro del mister sia quasi nullo ma così non è, anzi credo sia molto più complicato cercare di essere utile ed efficace nel percorso di crescita del bambino, strutturando e ideando attività, esercizi e giochi che possano contribuire a raggiungere obiettivi che molto spesso vanno anche al di là del calcio stesso.

Combatto per un calcio in cui l’educazione e la pedagogia trovino posto, in cui si guardi al bambino concreto, reale, unico che si ha davanti e in cui si abbandoni la logica della formazione da professionisti.


Ma cosa intendo per “formazione da professionisti”? Ci sono pochi e semplici segnali, nella scuola calcio, che possono, a mio parere, far capire se l’attenzione è focalizzata sul bambino in quanto persona o sul bambino in quanto futuro professionista e provo a riportarli brevemente:

1. Il far giocare i bambini su campi inadeguati per dimensioni, non rispettando le loro capacità atletiche;

2. Utilizzare palloni numero 5 perché “prima o poi dovranno giocare con la palla grande”;

3. Assegnare i famosi “ruoli” ai bambini, senza considerare le fasi evolutive. La cosiddetta “specializzazione del ruolo”, che secondo me , va presentata intorno ai 10 anni e non prima;

4. Limitare la fantasia dei bambini, guidandoli come si fa con i calciatori della playstation;

5. Traferire loro la frustrazione per il risultato negativo e l’ansia di scendere in campo.

Ecco, credo sia giusto abbandonare tutto questo, per lasciare ai bambini la libertà di essere bambini, altrimenti non saranno mai adulti, nel calcio come nella vita!
 

bottom of page